Di Aldo Di Vito
In quel 1980 furono assassinati Giorgio Barbarulo e Marcello Torre, miei cari amici, avvocati penalisti e speranze politiche dell’Agro, uno a luglio e l’altro a dicembre, entrambi sindaci delle loro città, Nofi e Pagani, Marcello Torre ancora in carica. Il 28 luglio verso le nove di sera mi telefonò a casa Angelo Ramaschiello, giornalista di lungo corso, “Hanno ammazzato Giorgio”, mi disse. Mi misi a ridere, “Angiole’, nun pazzia’, non sono scherzi da fare. Sono stato con lui non più di due ore fa, ti assicuro, gode ottima salute”. Insistette, “È successo pochi minuti fa e adesso si trova in camera mortuaria all’ospedale di Pagani”. Mi precipitai allo studio di Giorgio, in via Garibaldi, non lontano da casa mia. Il portoncino era aperto, non c’era né un carabiniere né un poliziotto a piantonarlo. Lungo l’androne chiazze di sangue calpestato, su cui era stata sparsa qualche manciata di segatura. L’assassino aveva sparato proprio lì, forse mentre Giorgio stava tentando di fuggire o mentre, com’era solito, stava uscendo sulla soglia del portone a fumare una sigaretta. Conoscevo bene il suo studio, dove spesso mi intrattenevo con lui a chiacchierare o a lavorare. Entrai nella sua stanza senza controlli, nessuno mi chiese chi ero, c’era un sacco di gente accalcata intorno alla scrivania col piano di cristallo, su cui troneggiava un portacenere traboccante di mozziconi. C’erano anche gli Inquirenti, polizia, carabinieri, un magistrato, che si scambiavano opinioni e ipotesi investigative in presenza di curiosi di ogni genere. Fra questi ci sarebbe potuto essere anche l’assassino. Niente "Scientifica" per i rilievi di routine, impronte digitali, peli, residui organici, impronte di scarpe, fotografie e cose del genere. Qualcuno disse che l’avvocato era stato ucciso con la sua stessa pistola che egli teneva sempre nel cassetto destro della scrivania dove però non c’era. Nessuno aveva ancora verificato se l’arma si trovasse altrove, per esempio a casa sua, dove infatti fu poi ritrovata. Furono trovati invece alcuni giornali pornografici che, messi insieme a qualche altro pettegolezzo, fecero subito imboccare la pista erotica e passionale. Si stabilì quindi su due piedi “Senza ombra di dubbio”, che Giorgio stesse con una donna nello studio e che fosse stato sorpreso da un marito o da un parente geloso, senza tener conto che è consuetudine della malavita lasciare tracce e oggetti allo scopo di depistare le indagini. Causale passionale dunque. E la versione è rimasta così cristallizzata per anni, finché i pentiti, ovviamente resi edotti, si sono incaricati di confermarla. Io non sono mai stato convinto di quest’ipotesi. Ho sempre pensato invece che l’assassinio di Giorgio fosse collegato al suo mandato di sindaco ma nessuno ha mai pensato di convocarmi e interpellarmi, pur essendo noti gli stretti rapporti professionali, politici e amicali che avevo con lui. Quella sera incontrai Marcello Torre, pallido in volto come per un triste presentimento, che si trattenne a lungo a vegliare il cadavere di Giorgio. Marcello era un fervente cattolico ed era stato un attivo uomo politico democristiano, consigliere comunale di Pagani e vicepresidente della Provincia. Poi si era allontanato dalla politica per dedicarsi soltanto all’attività forense. Aveva difeso anche alcuni brigatisti in processi importanti. Il trenta maggio di quell’anno, quando gli avevano proposto di candidarsi alle elezioni amministrative di Pagani, aveva consegnato al giudice istruttore del Tribunale di Salerno, Domenico Santacroce, una lettera perché la custodisse a futura memoria. Essa conteneva la lucidissima e stupefacente premonizione della tragica fine che lo attendeva e un nobile messaggio cristiano, civile ed umano.
“PER MIA MOGLIE E I MIEI FIGLI
Carissimi, ho intrapreso una battaglia politica assai difficile. Temo per la mia vita.
Ho parlato al dott. Ingala. Conoscete i valori della mia precedente esperienza politica. Torno nella lotta soltanto per un nuovo progetto di vita a Pagani.
Non ho alcun interesse personale. Sogno una Pagani civile e libera. Ponete a disposizione degli inquirenti tutto il mio studio. Non ho niente da nascondere.
Siate sempre degni del mio sacrificio e del mio impegno civile. Rispettatevi e amatevi.
Non debbo dirvi altro. Conoscete i miei desideri per il vostro avvenire. Lucia serena, Peppino e Annamaria laureati, corretti, tolleranti, aperti all’esistenza, con una famiglia sana e tranquilla.
Quanti mi hanno esposto al sacrificio siano sempre vicini alla mia famiglia.
Vi abbraccio forte al cuore.
Un pensiero ai miei fratelli, alle zie e a tutti i miei cari.
Marcello”
Santacroce gli aveva sconsigliato di candidarsi, invece lui volle rientrare in politica nel suo partito di origine, la DC, dopo che ne era stato lontano per diversi anni, per rispettare la propria fede di cattolico militante. Ne restarono delusi i comunisti che si aspettavano che si candidasse con loro. Fu eletto sindaco e fu la sua condanna a morte. Lo hanno ucciso l‘11 dicembre, mentre usciva di casa per recarsi a fare il proprio dovere quotidiano di sindaco. Erano trascorsi pochi giorni dal terremoto e i suoi oppositori avevano inscenato una vile campagna denigratoria, utilizzando i suoi rapporti professionali con Cartuccia, un piccolo boss paganese. Si era cominciato ad insinuare che avrebbe usato la sua carica istituzionale per favorire la camorra. Invece proprio la camorra lo ha trucidato. Ma fu soltanto la camorra o dietro ci fu il “compiacimento” di qualcuno che, non essendo riuscito a sconfiggerlo politicamente, ne progettò l’eliminazione fisica, affidandone poi alla manovalanza criminale l’esecuzione materiale? Altrimenti come si spiega l’avvertimento che gli era stato dato cinque mesi prima del terremoto, proprio nel momento in cui stava decidendo di ritornare in politica? È l’interrogativo che fu posto nei processi che si sono svolti sulla sua morte, senza ottenere risposta. Secondo me, all’indomani del terremoto, in alto loco si era già progettato di favorire negli appalti per la ricostruzione alcune imprese amiche del Nord con la complicità della camorra, come di fatto avvenne. E Marcello sarebbe stato di ostacolo a questo progetto. Al di là di tutto quanto si è detto in seguito nelle numerose celebrazioni ufficiali, la vera grandezza di Marcello Torre fu quella di essere andato incontro alla morte consapevolmente e volontariamente, per amore della sua gente e della sua città. Per fortuna ci sono a volte anche in politica esempi di questo tipo.
Aldo Di Vito