«A Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» è il titolo che Monsignor Giuseppe Giudice ha scelto per il Discorso alla Città 2018. L’appuntamento si è tenuto ieri nella Cattedrale di San Prisco a Nocera Inferiore. Ecco il discorso integrale: Signore e Signori, Autorità, Chiesa pellegrina in Nocera Inferiore – Sarno, l’approssimarsi della festa di san Prisco, primo evangelizzatore e Patrono della Diocesi, ci offre l’opportunità di raccoglierci intorno alla Cattedra del Vescovo per ascoltare il DISCORSO ALLA CITTÀ, atto di Magistero ordinario rivolto alla Chiesa e ai Cittadini che qui soffrono, combattono e sperano. Saluto con affetto e stima ognuno di Voi, ed in modo particolare tutti i Rappresentanti delle varie Istituzioni posti, con ruoli diversi, a servizio del bene comune e del progresso della nostra gente, con i quali il dialogo istituzionale vuole essere sempre leale e franco, anche quando nel groviglio attuale siamo chiamati a pronunciare parole altre, per incoraggiare e sostenere il cammino di una comunità. Nell’anno del Sinodo, un saluto speciale a tutti i nostri giovani, sognatori necessari, per i quali mai deve venir meno l’affetto e l’accompagnamento spirituale; e un pensiero discreto agli oranti e alle oranti, ai quali ho chiesto di intensificare la preghiera per questo nostro incontro che guarda con simpatia alla Città. E una carezza ai tanti sofferenti, nel corpo e nello spirito. Il tema scelto A Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio è molto delicato ed urgente per impostare un servizio capace di costruire la Casa comune (e non la cassa comune, come diceva mons. Tonino Bello), in un contesto sempre più sfilacciato, litigioso, confuso e variegato dove lo stesso concetto di umanità è posto in seria discussione. Nell’affrontare il tema proposto quest’anno, per non esporre solo il pensiero del Vescovo, offrirò in appendice commenti autorevoli per continuare l’approfondimento e per aprire vasti orizzonti, capaci di attingere a letture arricchenti ed edificanti. È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? La domanda è posta male perché l’intento dei farisei, di ieri e di oggi, è di vedere come cogliere Gesù in fallo nei suoi discorsi. È una domanda trappola, una domanda malvagia, costruita per amplificare tensioni e divisioni. Chi la pone non stima ed ama Gesù. È la domanda del Maligno in bocca a maligni per dipingere negativamente il nemico, l’invasore. Ed è posta a Gesù, nel tempo dell’invasione, sottovalutando che Egli è venuto a cercare il perduto, a scorgere Zaccheo tra le foglie del sicomoro (Lc 19, 1-10), è posta a Colui che, con la Croce, è venuto per eliminare il concetto stesso di nemico. Ed è preziosa in questo contesto la scuola della Croce, dove ogni potere è smascherato e i lontani si fanno vicini, perché è caduto il muro dell’inimicizia, aprendo il varco al Risorto. E i farisei, mandando i discepoli con gli erodiani, cercano di adularlo, di captare la sua benevolenza, con ossequi di parole e falsi baciamano. Ieri, ed ancora di più oggi! Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Il potere corrotto, nel suo gioco perverso, pur senza saperlo dice la verità su Gesù e a Gesù. È vero, Egli non guarda in faccia nessuno, solo perché in ogni faccia, anche in quella più sporca ma non corrotta, non falsa, vede un riflesso dell’immagine del Padre, di suo Padre, Dio Amore. E l’amore non fa differenza di persone. È lecito o no? Gesù, lo splendore della Verità, o Verità splendente, conosce la loro malizia e non cade nella trappola, perché il raggio di luce, pur confondendosi nel fango, non si imbratta. La sua non è la nostra libertà malata e farisaica, è la libertà dell’amore, del dono e della Croce. Egli è libero da tutti i condizionamenti per poter essere libero per ogni uomo e per tutto l’uomo, e per l’uomo di sempre. Ipocriti, falsi, commedianti: ecco la prima risposta di Gesù a coloro che guardano la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vedono la trave nei propri occhi. E Gesù, maestro di Verità e Verità egli stesso, invita a mostrare la moneta, a giudicare i fatti, e non a condannare, lodare o infangare per sentito dire. Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono? Risposta semplice e immediata: di Cesare. Ed è qui che la risposta di Gesù si fa alta, altra, oltre, e non può e non potrà mai omologarsi al teatrume delle domande o risposte maliziose, insidiose e cattive, date solo per mantenere lo status quo, il potere iniquo. Ridate a Cesare ciò che è di Cesare; rendete, cioè restituite in servizio ciò che avete ricevuto. A Cesare, cioè al mondo, alla vita, alla società, alla comunità, alla scuola, alla famiglia, alla polis; sì, date, non solo diritti ma anche doveri; restituite in volontà, intelligenza, impegni e costruite così con l’apporto di tutti, la città terrena, lo spazio dell’umano, il giardino della civitas, il recinto delle relazioni vere, autentiche e sincere. A tutti i “Cesare” di ieri e di oggi, sempre leale e sincera collaborazione con l’intento di provvedere al bene comune. Ad un patto, però, e qui il Maestro prende le distanze dai tanti poteri e da tutti i poteri, che non sono contrassegnati dal timbro del servizio. A Cesare le cose, e solo le cose, in giusta misura e coniugando sempre giustizia e carità. A Cesare, mai le persone, ma solo e soltanto le cose. Cesare non ha diritto sulle persone e sulla coscienza; Cesare non può mai coartare la libertà. Il potere di Cesare è limitato, recintato, perimetrato. Cesare deve garantire tutto a tutti, nel rispetto delle idee, dell’età, dell’ambiente, della cultura e della fede. Ma Cesare non è Dio. Ogni Cesare non è Dio, nonostante i deliri di onnipotenza. Gesù distingue i poteri e richiama quella sana osmosi tra Cesare e Dio, che è fondamento di ogni polis e civiltà, che vuole dirsi tale. A Dio, e solo a Dio ciò che di Dio è: ecco la novitas, il colpo d’ala gesuano. Noi come creature siamo immagine, e nel nostro DNA è scritta da sempre e per sempre l’immagine di Dio. Anche se scalfita, imbrattata, impolverata, deturpata, quella immagine rimane e, pulita dal sangue prezioso di Cristo, brilla di nuovo tra erbe ed animali, come unica ed irripetibile. Sì, qui abita il fascino dell’umana dignità! Anche quando amiamo con tutto il cuore, anche quando ci doniamo fino all’esaurimento, anche quando ci sposiamo e ci consacriamo fino a nasconderci, noi non apparteniamo a nessuno: siamo sempre sua immagine, sua moneta, sua proprietà, semplicemente siamo suoi. 7 Solo se si è solamente di Dio, si è veramente liberi e il canto della libertà vola oltre le cortine e gli steccati della nostra povertà, dei recinti costruiti dai falsi poteri. E nel momento del conflitto interiore, con distinzione ma senza confusione tra il divino e l’umano, dobbiamo sapere che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At 5, 25). Tutte le volte che nella storia questo principio è stato disatteso, abbiamo assistito al lungo corteo delle dittature, dei soprusi, delle violenze, degli eccidi, chiedendoci con angustia, con le parole di Primo Levi, se questo è un uomo! Sant’Ignazio di Antiochia, dinanzi alla tortura e alla morte esclama: «Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente un uomo» ricordandoci che non c’è umanesimo completo senza trascendenza (cfr. “Lettera ai Romani” di sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire). A Dio allora ciò che gli appartiene; a Cesare ciò che Dio ci ha dato in dono e che va restituito in opere e giorni dell’uomo per edificare, nella città degli uomini, l’unica Città di Dio. La vita, ed è qui il restituire, non va trattenuta per sé, ma donata, impegnata, trafficata con Cesare nel tempo per essere con Dio anche nell’eternità, memori della parola del Maestro che la vita si ritrova quando si perde. Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio». All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande». (Gv 19, 8-11) Può essere utile per tenere distinti i due poteri, civile e religioso, tornare a quel dialogo stupendo tra Gesù e Pilato nell’imminenza della Crocifissione. Pilato, dinanzi a Gesù in silenzio, gli ricorda che egli ha il potere di liberarlo o di metterlo in croce. Ed è qui che il Condannato, uscendo dal silenzio veritativo, si rivolge al pavido Pilato, e gli ricorda: Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Pilato non ascolta (neanche i suggerimenti saggi della moglie) e non sa, o non vuole sapere, che il vero potere, che è servizio, viene dall’alto. Pilato non sa, o non vuole sapere, che anch’egli è moneta di Dio, che anch’egli appartiene al Signore. Pilato non vuole sapere, o non sa, che il Regno del Crocifisso non è di questo mondo e che l’Amore non rimane in Croce. Ed è per questo che, lavandosi le mani, lascia cadere nell’acqua lo sporco della sua vita e l’innocenza del Nazareno. Ricca e sempre attuale la lezione della Gaudium et Spes, al n. 76: «È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori. La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L’uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna». Nel tempo della Visita Pastorale, mentre con gioia mi fermo anche nelle Case comunali e nei luoghi delle varie Istituzioni, è salutare e proficuo ricordare a noi stessi certi concetti per meglio servire l’uomo e tutto l’uomo nelle fatiche del tempo e nel tempo che, per molti, rimane aperto alle sorprese dell’Eterno. Mi piace concludere con una delle preghiere composte per la Visita Pastorale per inserire anche questo momento nel percorso più ampio della nostra Diocesi. Preghiamo Signore guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna (cfr Salmo 80,15). Ricordati di me, Signore, per amore del tuo popolo, visitami con la tua salvezza (cfr Salmo 106,4). Con le parole dell’orante biblico, scritte da sempre nel cuore della Chiesa, Signore, noi ti invochiamo in questo tempo di grazia della Visita Pastorale. Vieni a visitarci come Parola per illuminare il cammino della nostra vita. Vieni a visitarci come Pane per nutrire, con l’eucaristia, la nostra fame e sostenere il nostro pellegrinaggio verso il Regno. 11 Vieni a vistarci come Povero, per ricordarci che i poveri sono sempre con noi e per aiutarci ad accogliere tutte le povertà e guarire le tante ferite. Vieni a visitarci come Pastore, che nel Vescovo guida la nostra Chiesa e accompagnala verso pascoli ubertosi ed acque tranquille. Vieni a visitarci come Signore della nostra vita, nelle case e nelle piazze e fa’ che, riuniti sotto il manto di Maria e in compagnia dei nostri Santi, impariamo ad essere per tutti compassione e tenerezza, mano che rialza e sguardo che incoraggia, sorriso, gioia e canto fino al giorno del tuo ritorno glorioso. Amen.vescovo-giuseppe-giudice1

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